Sconsigliare 'senza se e senza ma' l'uso di
marcatori genetici per prevenire rischio individuale
"Viste queste premesse, non
sorprende che negli ultimi 6-7 anni, rispondendo alle aspettative di medici e
pazienti - suggerisce la Sid - siano stati fatti diversi i tentativi per
commercializzare test genetici, basati sui risultati ottenuti dagli studi di
associazione genome-wide (Gwas), con lo scopo di prevedere malattie
multifattoriali, tra le quali appunto il diabete di tipo 1 (Dmt1), il diabete
di tipo 2 (Dmt2) e alcune delle complicanze croniche del diabete".
Nel caso del diabete di tipo 1,
l'informazione genetica e la consulenza genetica, possono essere di qualche
aiuto in alcune famiglie con un’elevata presenza di individui affetti, ma non
nella popolazione generale - precisano i diabetologi Sid - La presenza di una
rilevante componente genetica alla base dell’insorgenza della malattia è
evidente: il rischio di sviluppare diabete di tipo 1 prima dei 20 anni è del 5%
nei bambini nati in una famiglia con un membro affetto da questa condizione,
mentre è solo dello 0,3% nella popolazione generale. Il 50% di questa
suscettibilità genetica al diabete di tipo 1 è 'scritto' nei geni del complesso
maggiore di istocompatibilità (Hla), sul cromosoma 6. Al di fuori di questa
piccola regione del Dna, ne sono state individuate altre 60 che conferiscono
suscettibilità al diabete di tipo 1, ma che non sono così importanti come i
geni Hla. Quelle più studiate sono il gene dell’insulina (INS), del Cytotoxic
T-Lymphocyte Antigen (CTLA-4) e del Protein Tyrosine Phosphatase Non Receptor
22 (PTN22).
"La tipizzazione dei geni HLA –
spiega Trischitta – insieme alla storia familiare di malattia e alla presenza
di autoanticorpi (contro insulina, GAD, IA-2 e ZnT8), rappresenta attualmente
il migliore approccio per la predizione del diabete di tipo 1. Nel singolo
individuo la tipizzazione HLA potrebbe essere utile nei parenti di primo grado
dei pazienti con diabete di tipo 1, permettendo di stimare il rischio della
comparsa di autoanticorpi e dell’iperglicemia. Al di fuori dell’ambito
predittivo inoltre, la tipizzazione HLA può aiutare a distinguere il diabete di
tipo 1 da altre forme di diabete (ad esempio il MODY o diabete neonatale).
Tuttavia, ad oggi non è stata individuata alcuna strategia per la prevenzione
del diabete di tipo 1 e quindi una volta appurato un aumentato rischio di
sviluppare la condizione morbosa, non si sarebbe comunque in grado di
prevenirla".
"Bisogna chiedersi - avverte
Trischitta - se i test di predizione del diabete di tipo 1 siano veramente
utili ed eticamente giustificati sul versante medico-assistenziali o se invece
non debbano ancora essere lasciati come utile strumento di ricerca nell’attesa
che si individuino vere strategie di prevenzione di questa forma di
diabete".
Nel caso del diabete di tipo 2,
questa è una malattia caratterizzata da una forte componente genetica, ma
grandemente influenzata anche dallo stile di vita e da influenze ambientali e
sociali. Il numero delle varianti genetiche associate finora al rischio di
diabete di tipo 2 è in costante aumento e attualmente se ne contano 153.
L’insieme di tutte queste varianti tuttavia spiega appena il 10-15% della
ereditabilità del diabete di tipo 2.
"Negli ultimi anni sono stati
sviluppati molti modelli non genetici per la predizione del rischio di diabete
di tipo 2, basati su età, sesso, etnia, adiposità, glicemia, storia familiare
di diabete, componenti della sindrome metabolica. Al momento attuale - rimarca
la Sid - l’associazione delle informazioni genetiche a questi modelli clinici e
socio-demografici di predizione del rischio di diabete di tipo 2 aggiunge poco
o nulla alla capacità predittiva complessiva di questi modelli".
In
conclusione, secondo i diabetologi "i pazienti dovrebbero essere dunque
sconsigliati dall’effettuare i test genetici attualmente in commercio per la
determinazione dei rischio individuale di diabete di tipo 2 . Nel caso del
diabete di tipo 2 la scoperta di una suscettibilità genetica scritta nel Dna di
un individuo non aggiunge nulla di clinicamente rilevante, almeno per il
momento, alle informazioni date da biomarcatori non genetici di facile
reperibilità ed economici
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