venerdì 17 giugno 2016

Diabete, gli esperti: "Test del Dna non servono, diffidare da 'cartomanti'"

 Sconsigliare 'senza se e senza ma' l'uso di marcatori genetici per prevenire rischio individuale 

"Viste queste premesse, non sorprende che negli ultimi 6-7 anni, rispondendo alle aspettative di medici e pazienti - suggerisce la Sid - siano stati fatti diversi i tentativi per commercializzare test genetici, basati sui risultati ottenuti dagli studi di associazione genome-wide (Gwas), con lo scopo di prevedere malattie multifattoriali, tra le quali appunto il diabete di tipo 1 (Dmt1), il diabete di tipo 2 (Dmt2) e alcune delle complicanze croniche del diabete".
Nel caso del diabete di tipo 1, l'informazione genetica e la consulenza genetica, possono essere di qualche aiuto in alcune famiglie con un’elevata presenza di individui affetti, ma non nella popolazione generale - precisano i diabetologi Sid - La presenza di una rilevante componente genetica alla base dell’insorgenza della malattia è evidente: il rischio di sviluppare diabete di tipo 1 prima dei 20 anni è del 5% nei bambini nati in una famiglia con un membro affetto da questa condizione, mentre è solo dello 0,3% nella popolazione generale. Il 50% di questa suscettibilità genetica al diabete di tipo 1 è 'scritto' nei geni del complesso maggiore di istocompatibilità (Hla), sul cromosoma 6. Al di fuori di questa piccola regione del Dna, ne sono state individuate altre 60 che conferiscono suscettibilità al diabete di tipo 1, ma che non sono così importanti come i geni Hla. Quelle più studiate sono il gene dell’insulina (INS), del Cytotoxic T-Lymphocyte Antigen (CTLA-4) e del Protein Tyrosine Phosphatase Non Receptor 22 (PTN22).
"La tipizzazione dei geni HLA – spiega Trischitta – insieme alla storia familiare di malattia e alla presenza di autoanticorpi (contro insulina, GAD, IA-2 e ZnT8), rappresenta attualmente il migliore approccio per la predizione del diabete di tipo 1. Nel singolo individuo la tipizzazione HLA potrebbe essere utile nei parenti di primo grado dei pazienti con diabete di tipo 1, permettendo di stimare il rischio della comparsa di autoanticorpi e dell’iperglicemia. Al di fuori dell’ambito predittivo inoltre, la tipizzazione HLA può aiutare a distinguere il diabete di tipo 1 da altre forme di diabete (ad esempio il MODY o diabete neonatale). Tuttavia, ad oggi non è stata individuata alcuna strategia per la prevenzione del diabete di tipo 1 e quindi una volta appurato un aumentato rischio di sviluppare la condizione morbosa, non si sarebbe comunque in grado di prevenirla".
"Bisogna chiedersi - avverte Trischitta - se i test di predizione del diabete di tipo 1 siano veramente utili ed eticamente giustificati sul versante medico-assistenziali o se invece non debbano ancora essere lasciati come utile strumento di ricerca nell’attesa che si individuino vere strategie di prevenzione di questa forma di diabete".
Nel caso del diabete di tipo 2, questa è una malattia caratterizzata da una forte componente genetica, ma grandemente influenzata anche dallo stile di vita e da influenze ambientali e sociali. Il numero delle varianti genetiche associate finora al rischio di diabete di tipo 2 è in costante aumento e attualmente se ne contano 153. L’insieme di tutte queste varianti tuttavia spiega appena il 10-15% della ereditabilità del diabete di tipo 2.
"Negli ultimi anni sono stati sviluppati molti modelli non genetici per la predizione del rischio di diabete di tipo 2, basati su età, sesso, etnia, adiposità, glicemia, storia familiare di diabete, componenti della sindrome metabolica. Al momento attuale - rimarca la Sid - l’associazione delle informazioni genetiche a questi modelli clinici e socio-demografici di predizione del rischio di diabete di tipo 2 aggiunge poco o nulla alla capacità predittiva complessiva di questi modelli".
In conclusione, secondo i diabetologi "i pazienti dovrebbero essere dunque sconsigliati dall’effettuare i test genetici attualmente in commercio per la determinazione dei rischio individuale di diabete di tipo 2 . Nel caso del diabete di tipo 2 la scoperta di una suscettibilità genetica scritta nel Dna di un individuo non aggiunge nulla di clinicamente rilevante, almeno per il momento, alle informazioni date da biomarcatori non genetici di facile reperibilità ed economici

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