mercoledì 29 aprile 2015

Uno studio appena pubblicato ha scoperto che le due malattie, singolarmente o associate, aumentano le probabilità che si presenti anche la terza


Depressione e diabete di tipo 2 sono stati associati a un aumentato rischio di demenza e si è scoperto che il rischio è ancora maggiore tra gli individui che presentano entrambi i disturbi rispetto alle persone che non hanno nessuna delle due condizioni. Sono questi i risultati di uno studio pubblicato online sulla rivista JAMA Psychiatry, condondotto su un campione complessivo di 2,4 milioni di cittadini danesi.
Diabete di tipo 2 e depressione maggiore sono malattie comuninelle popolazioni occidentali e si calcola che ben il 20 per cento delle persone con diabete di tipo 2 possa anche considerarsi depresso. Dimitry Davydow, della scuola di medicina dell'Università di Washington, a Seattle, e altri autori hanno esaminato il rischio di demenza tra gli individui con depressione, diabete di tipo 2 o entrambi rispetto a individui con nessuna delle due condizioni in un gruppo di più di 2,4 milioni di danesi liberi da demenza di oltre 50 anni di età, dal 2007 fino al 2013.
 
Complessivamente, il 19,4 per cento degli individui nel gruppo ha avuto una diagnosi di depressione (477.133 individui), il 9,1 per cento aveva il diabete tipo 2 (223.174 individui), e il 3,9 per cento (95.691 persone) ha avuto una diagnosi di diabete di tipo 2 e di depressione. L'età media al momento della diagnosi iniziale di diabete era di 63 anni e l'età media al momento della diagnosi iniziale di depressione era di circa 58 anni.
 
Gli autori hanno scoperto che durante il periodo di studio, il 2,4 per cento degli individui (59.663 persone) ha sviluppato una forma di demenza, con un'età media alla diagnosi di quasi 81 anni. Tra questi, 15.729 persone (26,4 per cento) avevano avuto solo una diagnosi di depressione e 6.466 (10,8 per cento) avevano solo ildiabete di tipo 2, mentre 4.022 (6,7 per cento) hanno avutoentrambe le condizioni. Secondo gli autori, il diabete di tipo 2 da solo era associato al 20 per cento di aumento di rischio per la demenza, e la depressione da sola all'83 per cento di aumento di rischio. Ma per chi li presentava entrambi, il rischio di demenza risultava aumentato addirittura del 117 per cento. Un dettaglio interessante consiste nel fatto che il rischio di demenza sembrava essere ancora più grande tra le persone con meno di 65 anni.
 
"Alla luce del crescente onere sociale delle malattie croniche", concludono gli autori, "sono necessarie ulteriori ricerche per chiarire i meccanismi fisiopatologici che collegano la depressione e il diabete mellito di tipo 2 a esiti negativi come la demenza e occorre sviluppare interventi volti a prevenire queste temute complicazioni".



domenica 26 aprile 2015

Diabete. Glucosio in eccesso, abbatterlo attraverso il rene Diabete. Glucosio in eccesso, abbatterlo attraverso il rene

Una novità importante, perché cambia il bersaglio nella lotta al diabete. Arriva in Italia la prima terapia che agisce sui reni permettendo l’eliminazione dello zucchero in eccesso e la riduzione della glicemia. Una sola compressa orale determina una riduzione importante della glicemia con una significativa perdita di peso e un abbassamento della pressione arteriosa. La nuova molecola, dapagliflozin, è ora disponibile anche in Italia (già presente in 49 Paesi nel mondo) ed è considerata la terapia pioniera di una nuova classe di farmaci, i cosiddetti inibitori del co-trasportatore di sodio-glucosio 2 (SGLT2), una proteina responsabile del 90% del riassorbimento del glucosio da parte dei reni. Sviluppata da AstraZeneca e studiata a partire da una sostanza naturale che si trova nella corteccia degli alberi di mele (la florizina), dapagliflozin permette una riduzione della glicemia indipendente dall’insulina e con un basso rischio di ipoglicemie. Inoltre, porta ad una significativa perdita di peso fino a 2-3 chilogrammi (soprattutto riduzione della massa grassa) e ad un abbassamento della pressione arteriosa. La molecola rappresenta così una soluzione innovativa contro il diabete: un’epidemia sociale con cui oggi convivono 4 milioni di italiani e 387 milioni di persone nel mondo. Una cifra che, a causa del diffondersi dell’obesità e della sedentarietà, rischia di superare il mezzo miliardo di individui - tra diabetici e persone a rischio - entro i prossimi 20 anni.
Il rene nel mirino. La nuova terapia sottolinea per la prima volta il ruolo del rene, fino ad oggi sottovalutato, nel controllo glicemico e nella gestione del diabete di tipo 2. “Pochi lo sanno, ma il rene ha un ruolo importante nel controllo della glicemia in quanto riassorbe il glucosio che è eliminato quotidianamente nelle urine. La nuova terapia - spiega Giorgio Sesti, Professore Ordinario di Medicina Interna dell'Università degli Studi “Magna Grecia” di Catanzaro, Presidente Eletto della Società Italiana di Diabetologia - sfrutta meccanismi fisiologici per abbassare la capacità di riassorbimento del glucosio da parte del rene con lo scopo di aumentare la perdita urinaria di glucosio. Infatti, Dapagliflozin riduce il riassorbimento renale del glucosio dalle urine, apre, per così dire, il ‘rubinetto-rene’ permettendo così all’organismo di liberarsi dal glucosio in eccesso. È una novità terapeutica importante che, grazie al suo caratteristico modo d’azione renale, non interferisce con le altre terapie anti-diabete, compresa l’insulina, ma piuttosto si integra con esse nel trattamento di tutte le fasi della malattia”.
La sfida al diabete. Ogni 60 minuti quasi 560 persone nel mondo e 3 in Italia muoiono per cause riconducibili al diabete. Una malattia che “amplifica” altri disturbi, tanto che il 55% dei diabetici italiani - come emerge da un’indagine promossa da AstraZeneca e realizzata da Doxa Pharma - soffre di ipertensione, l’11% ha affrontato un infarto o un ictus, il 25% si sente depresso (rispetto ai non-diabetici che si fermano al 17%, all’1% e all’11% rispettivamente). “Assicurare il controllo glicemico, ma anche diminuire il rischio di ipoglicemie e contribuire a ridurre il peso corporeo e la pressione arteriosa - commenta il professore Salvatore Caputo, Presidente di Diabete Italia - sono aspetti fondamentali che la nuova terapia Dapagliflozin può apportare nella sfida al diabete di tipo 2: una malattia che aumenta il rischio di complicanze anche gravi, oltre che di ricovero ospedaliero in generale. Basti pensare che oggi circa il 30-35% dei pazienti ricoverati negli ospedali italiani ha il diabete o presenta alterazioni della glicemia. La nuova molecola, attraverso una monosomministrazione orale giornaliera, fa leva su un processo naturale che favorisce l’eliminazione dello zucchero in eccesso attraverso le urine: può costituire un notevole passo in avanti per il trattamento del diabete di tipo 2 sia nella fase precoce, sia in quella tardiva”.
Dall’albero alla terapia. Il meccanismo d’azione di Dapagliflozin è stato sviluppato a partire dalla florizina, una sostanza naturale che si trova nella corteccia degli alberi di mele e che se, assunta in dosi elevate, provoca l’escrezione del glucosio nelle urine. “La nuova classe terapeutica degli inibitori del co-trasportatore di sodio-glucosio di tipo 2, di cui Dapagliflozin è il capostipite - dichiara Andrea Giaccari, Professore di Diabetologia Policlinico Gemelli di Roma, Presidente Associazione Diabete Ricerca - permette di perdere il glucosio con le urine non solo per glicemie molto alte, come normalmente avviene in chi ha il diabete, ma anche in presenza di glicemie di poco elevate, senza mai indurre ipoglicemia. Ovviamente con gli zuccheri si eliminano anche calorie, e quindi peso. La nuova molecola è l’unica che agisce senza interferire con altri meccanismi di controllo della glicemia, in particolare con l’insulina, e ciò costituisce un grande vantaggio terapeutico nel diabete di tipo 2: si favorisce infatti la combinazione con altri farmaci e la personalizzazione della terapia sulla base del quadro clinico e dello stile di vita della persona”. “L’arrivo in Italia di Dapagliflozin - commenta Pablo Panella, Presidente di AstraZeneca Italia - rappresenta un significativo passo avanti compiuto dalla ricerca scientifica di AstraZeneca: un nuovo farmaco che arricchisce un portafoglio unico di terapie innovative contro il diabete di tipo 2, una malattia che sta raggiungendo proporzioni enormi in tutto il pianeta. Per questo motivo crediamo che oggi sia sempre più necessario dichiarare guerra al diabete con tutte le frecce che abbiamo a disposizione. Mi riferisco ovviamente ai nuovi trattamenti, ma anche alle partnership di eccellenza, come quella recentemente annunciata tra AstraZeneca e l’Harvard Stem Cell Institute, che si propone di applicare alle nuove terapie una tecnica in grado di creare beta cellule pancreatiche umane partendo dalle cellule staminali. Senza dimenticare quelle iniziative, come il Progetto DRINN, che permettono di supportare i giovani ricercatori italiani”. (EUGENIA SERMONTI)



mercoledì 22 aprile 2015

Dimagrire col diabete: la moda pericolosa della diabulimia

 Un disturbo alimentare diagnosticato per la prima volta nel 2009, che in America coinvolge il 40% delle giovani donne affette da diabete di tipo 1 e si sta diffondendo in Italia
Katherine Marple è una scrittrice americana. Quando aveva 14 anni le fu diagnosticato il diabete di tipo 1: una malattia cronica, autoimmune, che la obbligava a iniettarsi periodicamente dosi di insulina. Lei però non voleva, perché l’insulina la faceva ingrassare. Così svuotava le siringhe nei cuscini del divano e, quando non poteva trattenersi dall’abbuffarsi di gelato o biscotti, si procurava il vomito. Per essere sempre più magra, certo, ma anche perché controllare il suo peso le dava l’illusione di tenere le redini di una parte della sua vita che in realtà le era sfuggita, proprio a causa della malattia.
Katherine Marple è solo una delle migliaia di persone al mondo affette da diabulimia. Un disturbo alimentare che nasce dalla difficoltà di convivere con il diabete di tipo 1, in genere diagnosticato prima dei 20 anni, e che cresce con il senso di inadeguatezza che l’adolescenza si porta inevitabilmente dietro. Secondo la Diabulimia Helpline,
I primi a lanciare l’allarme sono stati nel 2009 i medici britannici, che hanno notato come un certo numero di pazienti diabetici non assumeva correttamente le dosi di insulina prescritte.
Alla base del disturbo alimentare c’è proprio il ruolo dell’insulina nell’assorbimento degli zuccheri. La diagnosi di diabete, che comunque si porta dietro la necessità di iniziare un regime alimentare controllato, è associata alla prescrizione di un certo quantitativo di insulina in base al peso corporeo. Questo ormone aiuta l’organismo ad assimilare correttamente il glucosio contenuto negli alimenti: nei pazienti diabetici, solitamente molto magri a causa della disfunzione, ciò si traduce generalmente in un aumento di peso.
Di qui la rinuncia volontaria alle dosi di insulina per continuare a dimagrire. Un comportamento sbagliato del quale i medici, fino a pochi anni fa, raramente si accorgevano se non per i risultati:problemi al fegato, ai reni, alla vista fino al decesso. Anche perché la malattia non si esaurisce con la ridotta o mancata assunzione di insulina, ma spesso si combina con altri disturbi del comportamento alimentare: dalle abbuffate alle privazioni prolungate di cibo, al vomito indotto, fino a manie ossessivo-compulsive. Da qui il termine diabulimia, crasi tra le parolediabete e bulimia.

Dalla diabulimia si guarisce? Sì, con il supporto di medici, nutrizionisti, familiari e di strutture adeguate. In Italia il Ministero della Salute, la Presidenza del Consiglio e la Regione Umbria hanno realizzato una  mappatura dei centri che si occupano di disturbi del comportamento alimentare. A Milano il Polo Universitario dell’Ospedale “Luigi Sacco” offre ai ragazzi affetti da diabete di tipo 1 e alle loro famiglie un supporto terapeutico basato anche sul parental training, mentre a dicembre all’Università Tor Vergata di Roma è stata presentata la prima tesi di Laurea italiana sulla diabulimia, a firma di Francesca Ionta per la cattedra di Neurofisiopatologia del Professor Nicola Mercuri. Il primo passo, dicono gli esperti ma soprattutto i pazienti che sono guariti, è imparare a prendersi cura di se stessi.

sabato 18 aprile 2015

Insulina alta e diabete: ecco cosa sapere

Cosa è l’insulina alta? 

Per comprendere adeguatamente il rapporto che vige tra il diabete e l’insulina alta bisogna prima fare un passo indietro e ricordare cosa sia .
l' iperinsulinemia . Essa è presente quando vi è un elevata concentrazione dell’ormone insulemico nel sangue. Esso viene prodotto per dare modo alle cellule di avere l’energia per il loro funzionamento attraverso l’assorbimento degli zuccheri

Diabete sintomo e causa insulina alta
Il diabete e l’insulina alta sono due patologie correlate, al pari dell’iperinsulinemia e l’obesità. Vivono infatti un rapporto causa effetto di tipo circolare. L’insulina alta può causare la comparsa di diabete di tipo due e lo stesso può portare ad un innalzamento dei livelli di insulina. Il pancreas diventa il principale protagonista di una situazione in cui diventa importantissimo tenere sotto controllo la glicemia e ciò che si assume in modo tale da dare all’organo il giusto carico di lavoro per evitare che produca troppo ormone. E’ un filo molto sottile da seguire, di cui la dieta e una terapia farmacologica diventano gli strumenti basilari di gestione
.
Glicemia ed insulina alta
Quando si parla del rapporto tra il diabete ed insulina alta la glicemia rappresenta un fattore chiave di cui tenere conto. Essa infatti può scendere drasticamente quando si soffre di iperinsulinemia, rendendo più difficile, a causa dello stato di ipoglicemia reattiva che si instaura, l’approccio al diabete di tipo II ed ai suoi sintomi che non di rado sono difficili da gestire. Di solito una condizione di questo genere prevede, dopo una diagnosi precisa ed un osservazione generale dell’apposizione di un microinfusore di insulina per tenere sotto controllo il livello degli zuccheri nel sangue e quindi anche il diabete.

mercoledì 15 aprile 2015

Fumo in gravidanza e rischio diabete


Sanihelp.it -  Uno studio presentato al meeting annuale dell’Endocrine Society's e condotto presso l’università della California  ha evidenziato come legestanti che fumano in gravidanza espongono a un maggior rischio di sviluppare diabete di tipo duenelle loro figlie.

Gli autori dello studio hanno analizzato i dati relativi a circa 1800 donne di età compresa fra i 44 e i 54 anni, tutte affette da diabete.
I ricercatori in particolare, hanno cercato di scoprire se i genitori di queste donne avevano fumato durante la gestazione: si è visto che le pazienti con mamme fumatrici avevano  un rischio diabete più alto rispetto alle donne per le quali solo il padre era stato fumatore.

Per queste donne il rischio diabete si è rivelato superiore alla norma anche tenendo conto di altri fattori di rischio per lo sviluppo della patologia diabete come la razza, ilpeso alla nascita o l’indice di massa corporea.
Gli studi a disposizione hanno evidenziato come ridurre l’esposizione del feto al fumo passivo abbassa il rischio di sviluppare diabete mellito, ma in ogni caso durante la gestazione i genitori non dovrebbero assolutamente fumare

sabato 11 aprile 2015

Alto rischio diabete per chi fa le ore piccole si sveglia tardi la mattina

 "gufi", ovvero chi tende a fare le ore piccole e a svegliarsi tardi la mattina, sono più a rischio di sviluppare il diabete, la sindrome metabolica e la sarcopenia, rispetto alle "allodole", cioè ai mattinieri.
Tutto questo nonostante dormano per lo stesso numero di ore. Lo ha scoperto uno studio della Korea University College of Medicine di Ansan, Corea, pubblicato sul Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism. Secondo i ricercatori, il maggior rischio dei "gufi" di sviluppare il diabete sarebbe dovuto all'eventuale carenza di sonno, alla scarsa qualità del sonno e all'alimentazione inadeguata che potrebbe portare alla fine a problematici cambiamenti metabolici.
I nottambuli sono spesso giovani - Per arrivare a queste conclusioni i ricercatori hanno esaminato le abitudini riguardanti il sonno e il metabolismo di 1.620 persone di età compresa tra i 47 e i 59 anni, che hanno preso parte al Korean Genome Epidemiology Study (KoGES). Gli scienziati hanno inoltre misurato il grasso corporeo totale, la massa magra e il grasso viscerale addominale. Sulla base dei risultati dei questionari a cui sono stati sottoposti, 480 partecipanti sono stati classificati come "allodole" e 95 come "gufi". I restanti sono stati invece classificati a metà tra gufi e allodole. Ebbene, i nottambuli tendevano a essere più giovani, avevano livelli più elevati di grasso corporeo e di trigliceridi rispetto ai mattinieri.

Per i gufi alto anche il rischio sarcopenia - I gufi sono risultati anche più a rischio sarcopenia, una condizione in cui il corpo perde gradualmente massa muscolare. Gli uomini "gufi" hanno anche avuto più probabilità di sviluppare diabete e sarcopenia. Tra le donne, invece le nottambule tendevano ad avere più grasso localizzato nella pancia e un rischio significativamente più elevato di sindrome metabolica, un insieme di fattori di rischio che aumentano le probabilità di sviluppare malattie cardiache, ictus e diabete.