sabato 28 febbraio 2015

SALUTE :RISCHIO DIABETE DALLA CARENZA DI SONNO ,RIDUCE L’EFFICACIA DELL’INSULINA

E’ ormai sempre più documentato l’effetto deleterio della carenza saltuaria e cronica di sonno



Dormire poco aumenta il rischio di obesita’ e diabete: bastano tre giorni di sonno ridotto (circa 4 ore a notte), per vedere aumentare i grassi nel sangue e ridurre l’efficacia dell’ormone insulina nella regolazione della glicemia (zucchero nel sangue), una condizione molto simile a quella che si riscontra nelle prime fasi del diabete. Lo rivela uno studio su un campione di giovani di 19-30 anni i cui risultati sono stati pubblicati sulla rivista Diabetologia. Il lavoro e’ stato condotto da Esra Tasali della University of Chicago. E’ ormai sempre piu’ documentato l’effetto deleterio della carenza saltuaria e cronica di sonno: ad esempio favorisce l’aumento di peso provocando scompensi ormonali e inducendo a un maggior consumo di carboidrati. Gli esperti hanno voluto vedere piu’ da vicino cosa accade dopo qualche notte in cui non si dorme a sufficienza e cosi’ per un mese hanno studiato un gruppo di volontari, sottoponendoli piu’ e piu’ volte a prelievi di sangue sia dopo nottate in cui i partecipanti potevano dormire otto ore, sia quando invece il loro sonno era ristretto a 4 ore a notte. L’alimentazione dei soggetti e’ rimasta rigidamente controllata per tutta la durata dell’esperimento. Dopo solamente tre notti di sonno ridotto i loro livelli ematici di ormoni dello stress (noradrenalina e cortisolo) risultavano aumentati, come pure i grassi circolanti nel sangue al mattino. Inoltre la funzionalita’ dell’ormone insulina e’ risultata ridotta notevolmente, ovvero si e’ registrata una condizione molto simile al pre-diabete detta di resistenza all’insulina, che equivale a un minor controllo degli zuccheri nel sangue. Lo studio e’ interessante anche in relazione alla carenza cronica di sonno ormai tipica del mondo moderno; dormire a sufficienza potrebbe quindi contrastare l’epidemia globale di obesita’ e diabete.


martedì 24 febbraio 2015

GRAVIDANZA E DIABETE

  
Affrontare una gravidanza se si soffre di diabete non è assolutamente impossibile, basta arrivare preparate e mettere in conto una visita ogni due settimane.  


Negli ultimi tempi l'età della comparsa del diabete di tipo 2 si è abbassata ai 35-40 anni.

Diabete e gravidanza non sono assolutamente due realtà incompatibili. Anzi, se tenuti sotto controllo, possono andare a braccetto senza darsi (troppo) fastidio. L'importante, come sempre, è arrivare preparate. Dopo aver fatto il punto suldiabete gestazionale con la dottoressa Marina Scavini, e sull'importanza dellaprevenzione con la collega Maria Teresa Castiglioni, approfondiamo ancora di più la questione con la dottoressa Nicoletta Dozio, specialista in diabetologia e medicina interna, consulente al San Raffaele, che dal 1988 segue donne diabetiche che decidono di mettere al mondo un figlio. "Con grande soddisfazione - ci tiene a precisare - dal momento che è sorprendente la consapevolezza e la capacità delle donne quando diventano competenti in materia e riescono a trasmettere buone abitudini alimentari e di vita a tutta la famiglia".

Scendendo nei dettagli, è importante fare la prima distinzione: "Le donne con diabete di tipo 1 sono già seguite (o dovrebbero esserlo) da uno specialista, quindi è più facile che attuino tutti quei comportamenti volti alla riduzione dei rischi e al mantenimento  di buone glicemie durante la gravidanza". Va detto che, a fronte di un (troppo esiguo) 50% di popolazione femminile diabetica che mette in agenda unaconsulenza pre-concezionale, la strada verso la consapevolezza (di donne e diabetologi) è ancora lunga. Ma le cose si complicano davvero quando si parla delle donne con diabete di tipo 2, metabolico e non autoimmune, che sopraggiunge con l'età o in situazioni di sovrappeso e, molto spesso, senza che la diretta interessata se ne accorga e che quindi sia seguita da un diabetologo che le possa dare informazioni relative ad una possibile gravidanza. "Abbiamo notato - spiega la dottoressa Dozio - che negli ultimi tempi l'età della comparsa del diabete di tipo 2 si è abbassata ai 35-40 anni: se si somma questo al fatto che le donne fanno figli ad età sempre più avanzata, si capisce come la situazione rischi di complicarsi". E di come il concetto di uomo (in questo caso donna) avvisato significhi mezzo salvato. Il primo consiglio alle donne diabetiche (ma anche a quelle che per storia famigliare, età, o condizioni fisiche potrebbero diventarlo) è fissare una consulenza pre-concezionale quando l'idea di un figlio fa capolino nella vita di coppia.



Quanto è importante una visita preconcezionale?

Secondo me, nella libertà e consapevolezza di ogni donna, la gravidanza andrebbe in qualche modo programmata, indipendentemente dalla presenza di malattie. Tuttavia quando è presente il diabete è fondamentale arrivare preparate al concepimento, in condizioni metaboliche ottimali, con glicemie molto buone e minimizzando i rischi di ipoglicemie. Quando la gravidanza inizia ci sono così tante variazioni nell’organismo che partire da una situazione già controllata rende tutto molto più semplice e la gestazione più serena. Inoltre è importante che le donne con diabete di tipo 2, che assumono farmaci per controllare le glicemie, sappiano che questi farmaci sono controindicati al concepimento e durante la gravidanza. Per questo motivo viene iniziata la terapia insulinica prima del concepimento. Si tratta di iniezioni sottocutanee, relativamente semplici da fare ma, non dovere affrontare questi cambiamenti di fretta all’inizio di una gravidanza non programmata, dà molta tranquillità alle donne, alle loro famiglie e agli operatori sanitari.


Una donna con il diabete di tipo 1 vuole un figlio: che cosa deve aspettarsi dal diabetologo?

Nella visita preconcezionale si discute dei rischi specifici per ogni donna, si valuta nel suo complesso la situazione del diabete, lo stato di eventuali complicanze, si discutono i rischi di eventuali malformazioni e diabete nei figli. Il medico spiega perché è importante avere glicemie ottimali prima del concepimento e durante tutta la gravidanza, con valori che sono più bassi rispetto a quelli che definiscono il buon controllo al di fuori della gravidanza: avere un valore di emoglobina glicatail più vicino possibile ai livelli di normalità, minimizzando la frequenza di ipoglicemie consente di ridurre il rischio di malformazioni che altrimenti è circa3-4 volte superiore nelle rispetto alle donne senza il diabete. Inoltre, viene prescritto acido folico prima dell’inizio della gravidanza in dose adeguata. Si valuta l'interferenza con l'assunzione di farmaci non adatti alla gravidanza e si cerca di ottimizzare la terapia. Si valuta se ci sono altri problemi medici, e la funzionalità della tiroide. Si valuta la storia e la situazione ginecologica idealmente, come avviene nel nostro ospedale, insieme all’equipe ginecologica. Infine, si chiarisce che i controlli - per tutto il periodo della gravidanza - saranno molto frequenti, ogni due settimane almeno.

Mettiamo il caso di una donna over 35 anni, sovrappeso con una nonna diabetica, che vuole una gravidanza: perché dovrebbe fissare una visita dal diabetologo?  

La persona descritta è a rischio di sviluppare diabete e dovrebbe chiedere al suo medico di effettuare degli esami per escludere di avere già un diabete di tipo 2. Se si conferma la diagnosi di diabete di tipo 2 vale il discorso fatto prima per il diabete di tipo 1 e la donna dovrebbe chiedere una consulenza preconcezionale, per ottimizzare il controllo metabolico, rivedere altre eventuali terapie farmacologiche, iniziare un regime alimentare equilibrato e magari perdere un po’ di peso. Sottolineo che l’obesità di per sé conferisce dei rischi alla gravidanza e che le donne con obesità, con un BMI superiore a 30 (body mass index = indice di massa corporea che si calcola come peso in Kg/altezza in m al quadrato) dovrebbero discutere di questo con il medico e con il ginecologo, anche in assenza di diabete.



Ipotizziamo il peggiore degli scenari: una donna, fumatrice, con diabete di tipo 2 che scopre di aspettare un bambino: che cosa succede e che cosa deve fare? 

Deve rivolgersi tempestivamente ad un centro competente, che abbia esperienza e che tratti donne con diabete durante la gravidanza. Non parliamo di grossi numeri, le donne con diabete di tipo 1 e 2 rappresentano lo 0.4% delle gravidanze, perciò è importante essere seguite in centri che ne vedano un certo numero. Occorre valutare la situazione metabolica, le complicanze, effettuare una visita oculistica, sospendere eventuali farmaci, smettere di fumare ed iniziare la terapia insulinica e verificare come procede la gravidanza, nel più breve tempo possibile per potere avere una situazione metabolica controllata da subito, ovvero già nel primo trimestre di gravidanza, periodo in cui avviene la formazione degli organi del bambino. Per questo è un grande vantaggio essere viste prima della gravidanza: si può fare tutto questo senza troppe ansie.



Infine dopo la gravidanza: che cosa succede al diabete?


Il diabete resta se c’era prima della gravidanza, ci si può rilassare un po’ con i controlli, e ci fa piacere che sempre più donne decidano di avere più di un figlio, quindi l’esperienza del diabete e della gravidanza non deve essere così traumatizzante. Sappiamo che esiste una "memoria metabolica" e si ritiene che qualsiasi periodo di buon controllo della glicemia abbia un effetto benefico anche nel futuro della paziente. Pensiamo che gli sforzi che le donne fanno durante la gravidanza possano stimolarle a mantenere un buon controllo della glicemia negli anni a venire. Tutti i medici che si occupano di diabete e gravidanza ricordano pazienti che dicono che il periodo di controllo metabolico migliore è stato durante la gravidanza. Un altro elemento importante visto che parliamo di programmazione della gravidanza è di pensare alla contraccezione e di parlarne con il proprio ginecologo. È importante che le donne con diabete sappiano che ci sono molte possibilità per una contraccezione efficace anche per loro.

venerdì 13 febbraio 2015

Diabete, i pericoli del fruttosio


Un po ‘di dolcezza in questo mondo crudele. Come resistere all’invito di questo vecchio slogan pubblicitario? Lo zucchero, il miele, ed il cibo industriale addolciscono la nostra vita quotidiana. Gli alimenti trasformati, i cibi in scatola, le bibite e i succhi di frutta. Per anni, lo zucchero e principalmente fruttosio sono stati aggiunti a ciò che consumiamo. Va detto che il fruttosio ha tutto per piacere. Naturalmente presente nella frutta e nel miele (ma a basse concentrazioni), dà un gusto dolce più pronunciato, a parità di quantità di saccarosio. Gli alimenti trasformati sono più stabili e quelli cotti assumono un bel colore marrone più pronunciato. Ma non è tutto: il fruttosio aumenta l’appetito, perché riduce la sensazione di sazietà! Poco costoso, è quindi è un prodotto industriale prezioso: più si mangia, più vuol mangiare. Da qui il successo di una forma particolarmente concentrata: lo Sciroppo di fruttosio, sviluppato nel 1960 in sostituzione di saccarosio e utilizzato dal 1980 nella industria alimentare. Il dolce è uno dei sapori fondamentali che riconosciamo assieme al salato, l’acido e l’amaro. Anno dopo anno, il nostro gusto è stato plasmato da un sapore dolce più pronunciato. Un metodo di marketing che ricorda l’industria del tabacco, che ha fatto di tutto per rendere i prodotti più vendibili. Cambiamenti metabolici In questa escalation, l’Italia è ancora lontana dal conoscere i livelli di consumo raggiunti negli Stati Uniti, dove un individuo consuma  25 chili di fruttosio all’anno (contro gli 0,5 kg in Italia). Non ci sarebbe quindi bisogno di preoccuparsi se l’assunzione di fruttosio non avesse conseguenze negative. Le prove scientifiche e le raccomandazioni che ha pubblicato all’inizio di quest’anno, l’Organizzazione Mondiale della Sanità indica il legame tra carboidrati semplici aggiunti al cibo e l’aumento di peso e obesità. L’eccessivo consumo di fruttosio porta a cambiamenti metabolici. Il diabete di tipo 2, è una malattia la cui crescita (oltre 380 milioni di persone in tutto il mondo) ha raggiunto proporzioni epidemiche. Ogni anno più di 5 milioni di morti nel mondo sono dovuti al diabete, che con l’obesità e la sedentarietà, è un fattore di rischio cardiovascolare. Lungi dall’essere appannaggio dei paesi ricchi, il male ha vinto a basso e medio reddito. È urgente ridurre questa ingiustificata ingestione di fruttosio. Si inizi con l’etichettatura dei prodotti alimentari trasformati e bevande, per fornire ai consumatori le informazioni necessarie. Non è sufficiente conoscere il contenuto di carboidrati, come richiesto dalle normative europee, ma anche il tipo di zuccheri. A ciò devono seguire campagne per ridurre l’apporto calorico di questi zuccheri, a beneficio di quelli naturalmente presenti in frutta e verdura. Zucchero, sì, ma non uno qualsiasi!  


martedì 10 febbraio 2015

Diabete: la paura vien di notte "Ecco la difesa dall’ipoglicemia"


La persona con diabete può oggi condurre una vita assolutamente simile a chi non soffre di questa patologia, sia a livello sportivo che quotidiano, e con un’aspettativa di vita cresciuta enormemente negli ultimi anni. Ma per avere tutto ciò la persona con diabete deve avere una continua attenzione al monitoraggio della patologia e seguire una serie di indicazioni e controlli più volte al giorno. E basta saltare qualche ‘regola’ che la paura di ipoglicemia – l’eccessiva riduzione della quantità di zucchero nel sangue prodotta da alcuni dei farmaci per il trattamento del diabete – o di complicanze è dietro l’angolo. Ed è proprio l’ipoglicemia, soprattutto quella che si manifesta durante il sonno quando uno è più indifeso, a creare maggiore ansia nella persona con diabete e soprattutto nei suoi familiari. È uno dei dati emersi dallo studio internazionale DAWN2 (Diabetes Attitudes Wishes and Needs), l’indagine più ampia mai svolta per analizzare, dal punto di vista della persona con diabete e del familiare, l’impatto della malattia sulla vita quotidiana. Realizzato in collaborazione con International Diabetes Federation (IDF), International Society for Pediatric and Adolescent Diabetes (ISPAD), International Alliance of Patients’ Organization (IAPO) e Steno Diabetes Center, con il contributo non condizionante di Novo Nordisk, ha coinvolto oltre 15.000 persone con diabete, familiari e operatori sanitari, in 17 Paesi di 4 continenti. La paura di un episodio di ipoglicemia, che nelle sue manifestazioni meno gravi è riconoscibile da alcuni sintomi tra cui palpitazioni, tremore, ansia, giramento di testa, confusione, fino alla perdita di conoscenza e, nel caso degli episodi notturni, compromissione della qualità del sonno, preoccupa in Italia in media 6 persone con diabete su 10 (oltre 2 milioni sui 3,6 che sono noti avere la malattia) e il 64% dei loro familiari. Come è lecito attendersi, la percentuale risulta più elevata in chi è in cura con insulina rispetto a chi lo sia con altri farmaci. Nel caso particolare dell’ipoglicemia notturna: il 62% di chi si cura con l’insulina e il 45% di chi prende altri farmaci; il 72% contro il 57%, per i rispettivi familiari. “Il fatto che i familiari sembrino più preoccupati delle stesse persone con diabete non deve stupire”, commenta Antonio Nicolucci, Responsabile Dipartimento farmacologia clinica ed epidemiologia della Fondazione Mario Negri Sud, centro che elabora e analizza i dati dello studio DAWN2. “Questo dato, che si riscontra non solo in Italia, ma in tutti i principali Paesi esaminati – tra cui, in Europa, Francia, Germania, Gran Bretagna, Olanda, Danimarca, Spagna, Polonia – deriva dal fatto che i familiari conoscono meno la malattia, sono meno coinvolti nelle attività di educazione e informazione; in altre parole, li preoccupa la paura di non essere in grado di affrontare il problema del loro caro, qualora si dovesse presentare”, dice.
L’insulina deglutec. “Il diabete non comporta solo il rischio di gravi complicanze a cuore, reni, occhi, ma ha un forte impatto emotivo e psicologico su chi ne soffre e i suoi familiari”, aggiunge Nicoletta Musacchio, diabetologa, Istituti Clinici di Perfezionamento di Milano e Presidente eletto dell’Associazione Medici Diabetologi (AMD). “La nostra attenzione di diabetologi, oggi, si sta – e dovrebbe esserlo sempre di più - indirizzando non solo alla cura della malattia, ma al prendersi cura della persona. È necessario maggiore impegno sugli aspetti educativi e sulla scelta di modalità di trattamento e impiego di farmaci più adatti alle esigenze di chi abbiamo davanti, considerando non solo la sua malattia, ma la sua fragilità nel complesso; farmaci, ad esempio, che siano, come la nuova insulina degludec, flessibili nella somministrazione e con minori effetti indesiderati quali le ipoglicemie”, prosegue. L’insulina degludec, disponibile in Italia in queste settimane, rimborsabile in classe A dal Servizio sanitario nazionale, è un analogo basale dell’insulina messo a punto grazie a sofisticate tecniche di ingegneria molecolare, caratterizzato da durata d’azione superiore alle 42 ore e con un effetto metabolico distribuito uniformemente nel corso della giornata. Il suo meccanismo d’azione, che si traduce in un deposito sottocutaneo nel punto dell’iniezione, con un lento e costante rilascio di principio attivo, consente una ridotta variabilità di assorbimento e assicura un profilo glicemico più stabile con importante riduzione del rischio di ipoglicemia. “Le caratteristiche dell’insulina degludec fanno sì che, a parità di controllo glicemico, provochi un numero di ipoglicemie significativamente inferiore rispetto alle insuline basali sinora utilizzate”, spiega Giorgio Sesti, Professore Ordinario di medicina interna dell'Università degli Studi “Magna Grecia” di Catanzaro e Presidente Eletto della Società Italiana di Diabetologia (SID). “Ciò è vero anche e soprattutto per le ipoglicemie notturne, che rappresentano, come abbiamo visto, una delle maggiori paure per chi è in cura con l’insulina. Inoltre, consentono grande flessibilità nei tempi di somministrazione, rendendo possibile adattare la distanza tra una somministrazione e l’altra, quando necessario nella vita di tutti giorni”, conclude.
‘Dettodanoi’. Se la tecnologia viene in aiuto delle persone con diabete, migliorando le caratteristiche dei farmaci per evitare l’insorgere degli effetti meno desiderati, a fugare paure e ansie nelle stesse persone, ma soprattutto nei loro congiunti, serve il coinvolgimento, l’informazione, la conoscenza. Parlando di ipoglicemia a ciò provvede Diabete Italia, che ha realizzato, con il contributo di Novo Nordisk, un’utile guida all’argomento, nella collana “Dettodanoi” dedicata all’informazione e all’educazione di persone con diabete e familiari. “Conoscere e prevenire le ipoglicemie” è un agile volumetto di 48 pagine su che cosa sia l’ipoglicemia, perché si ha, come affrontarla, come evitarla. “L’ipoglicemia è un antipatico compagno di strada per le persone con diabete che usano l’insulina e farmaci come le sulfaniluree”, ricorda Salvatore Caputo, Presidente Diabete Italia. “Gestirle è relativamente facile, un po’ meno facile per le ipoglicemie nell’anziano curato con farmaci orali, prevenirle è possibile ma richiede molto impegno – aggiunge. La collana Dettodanoi affronta i temi chiave nella vita delle persone con diabete partendo da interviste in profondità ai diretti interessati. Ed è proprio dalle parole e dalle esperienze delle persone intervistate nel nostro volume che scaturiscono importanti suggerimenti per tutti gli altri”, conclude Caputo. “Novo Nordisk è nata oltre 90 anni fa con la messa a punto della produzione su scala industriale dell’insulina”, dichiara Costas Piliounis, Vice President Novo Nordisk Europe e General Manager Italy & Greece. “Da allora è sempre stata un’azienda all’avanguardia nella cura del diabete, che ha investito tanto nella ricerca di farmaci innovativi quanto nel sostegno a organizzazioni e progetti dedicati a migliorare la qualità di vita delle persone con diabete. Crediamo che quanto presentato oggi sia la chiara dimostrazione di entrambi questi nostri impegni”. (FLAVIA MARINCOLA)



sabato 7 febbraio 2015

L’obesità porta anche al diabete .Uno studio italiano spiega come


Arriva da uno studio italiano, frutto della ricerca della Società Italiana di Diabetologia appena pubblicato su Diabetes Care, un altro tassello di conoscenza che consente di spiegare la relazione tra l’incremento dell’obesità e quello del diabete autoimmune: secondo i ricercatori l’obesità contribuisce ad uccidere le cellule del pancreas, attraverso una reazione autoimmune, cioè attraverso la produzione di auto-anticorpi che distruggono lentamente le cellule beta, produttrici di insulina. Il NIRAD è una forma particolare di diabete che si colloca a metà strada tra i due pilastri classici della classificazione: il tipo 1 che compare nei giovani ed è causato dalla distruzione autoimmune delle cellule pancreatiche (in Italia interessa circa 200 mila persone) e il tipo 2, dovuto invece ad una resistenza dei tessuti periferici ai ‘comandi’ impartiti loro dall’insulina e al progressivo esaurimento della funzione del pancreas; quest’ultimo, il più frequente (in Italia interessa oltre 3,7 milioni di persone) si accompagna molto spesso a sovrappeso e obesità. Il diabete di tipo 1 si tratta subito con l’insulina; il tipo 2 si tratta con farmaci anche per molti anni (farmaci che aumentano la sensibilità dei tessuti all’insulina e altri che stimolano il pancreas a produrre più insulina), per poi arrivare gradualmente alla terapia con insulina. I paziente che sono affetti da diabete NIRAD sono apparentemente indistinguibili dai classici pazienti di tipo 2 (adulti, che presentano resistenza insulinica, sono in sovrappeso o obesi) ma nel loro sangue sono presenti autoanticorpi diretti contro le cellule pancreatiche, che li rendono simili ai pazienti di tipo 1; i pazienti NIRAD tuttavia possono essere trattati con i farmaci in compresse per molti anni e arrivano al trattamento con insulina molto più lentamente dei ‘tipici’ soggetti con diabete di tipo 1.
Lo studio italiano. Uno studio condotto da un gruppo di ricercatori dell’Università ‘Sapienza’ di Roma coordinato dalla professoressaRaffaella Buzzetti e finanziato da ‘Diabete ricerca’ onlus – la fondazione della Società Italiana di Diabetologia dedicata a supportare studi scientifici – ha valutato l’esistenza di una possibile correlazione tra la frequenza di comparsa e la tipologia di autoanticorpi (gli stessi presenti nei soggetti con diabete di tipo 1), espressi nel sangue dei pazienti con diabete di tipo NIRAD e la loro massa corporea. Sono stati studiati 1850 pazienti affetti da diabete di tipo 2 appartenenti alla coorte del progetto NIRAD che sono stati suddivisi, a seconda dell’indice di massa corporea (parametro che si calcola moltiplicando il peso in chili, per il quadrato dell’altezza in metri: Kg/m2) in tre gruppi: normopeso (<25), sovrappeso (da ≥25 a <30) e obesi (≥30 kg/m2). In tutti è stata ricercata la presenza di anticorpi diretti contro le cellule beta del pancreas produttrici di insulina. Il 6,5% del totale delle persone studiate (120 soggetti) sono risultate portatrici di almeno un tipo di anticorpo diretto contro le cellule beta pancreatiche. Ma gli unici autoanticorpi che aumentano in maniera proporzionale all’aumentare della massa corporea nei pazienti con diabete di tipo 2, sono risultati quelli tipo IA-2(256-760). I pazienti obesi, con diabete di tipo 2, portatori di questo particolare tipo di autoanticorpo, presentavano anche una più ampia circonferenza del punto vita, più elevati valori di acido urico e di colesterolo totale e mostravano una più lenta progressione verso il trattamento con insulina rispetto ai soggetti che presentano anticorpi anti-GAD. Nessuno dei pazienti con diabete di tipo 2 obesi, portatori di questi autoanticorpi è infatti arrivato al trattamento con insulina, durante i 7 anni di follow up, rispetto al 60% di quelli portatori di altri autoanticorpi. E’ come se gli anticorpi IA-2(256-760) fossero insomma ‘spuntati’, meno aggressivi degli altri verso le isole pancreatiche.
L’opinione degli esperti. Una possibile spiegazione potrebbe essere che lo scatenamento di questo ‘fuoco amico’ sia secondario al processo infiammatorio cronico, alla base del danno alle cellule beta, che si verifica nei pazienti di tipo 2 obesi. L’obesità viscerale rappresenta infatti uno dei principali fattori di rischio per il diabete di tipo 2, perché provoca uno stato di infiammazione cronica che contribuisce a determinare sia l’insulino-resistenza che la graduale distruzione delle cellule beta pancreatiche. “Questo studio – afferma la professoressa Buzzetti – offre spunti rilevanti in quanto suggerisce che l’obesità è in grado di favorire lo stato infiammatorio alla base di molte malattie autoimmuni”. Gli autori ritengono dunque che gli anticorpi IA-2(256-760) rappresentino un marcatore di un tipo particolare di diabete, che potrebbe avere un meccanismo di origine diverso dal diabete di tipo 2 ‘classico’. E’ noto da tempo che le persone obese sono più suscettibili alle malattie autoimmuni. L’obesità rappresenta infatti una condizione pro-infiammatoria, caratterizzata da un eccesso di un tipo particolare di globuli bianchi, i linfociti Th17, gli stessi che si trovano attivati ed ‘esuberanti’ in diverse malattie autoimmuni, dall’artrite reumatoide alla sclerosi multipla, alla psoriasi, al diabete di tipo 1. Queste cellule sono per loro natura molto ‘instabili’ e possono trasformarsi facilmente in linfociti Th1 e Th2, responsabili di tante malattie dovute ad un ‘attacco’ autoimmune. Lo studio pubblicato su Diabetes Care è stato realizzato con il supporto della ‘Fondazione Diabete e Ricerca’ onlus della Società Italiana di Diabetologia e finanziato con un grant non condizionato della Novo Nordisk Italia. "I risultati di questo studio – afferma il presidente della SID professor Enzo Bonora – sottolineano ancora una volta da un lato la complessità del diabete e dall'altra la grande qualità della ricerca diabetologica italiana e il ruolo chiave che in questo tipo di ricerca svolge la Società Italiana di Diabetologia".